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Semilibertà e detenzione domiciliare

detenzione domiciliare

Affidamento in prova ai servizi sociali, semilibertà e detenzione domiciliare

 

Quando è ammissibile anche per i camorristi.

 

Il caso.

Il Tribunale di sorveglianza di Roma rigettava la richiesta della condannata di poter fruire del differimento della pena per grave infermità, dell’affidamento in prova ai servizi sociali, della semilibertà e della detenzione domiciliare.

Inoltre, contrastando l’orientamento della Cassazione, ha ritenuto di non provvedere sulla richiesta di riconoscimento della collaborazione impossibile perchè la condannata aveva ormai espiato la pena relativa ai reati ostativi “di prima fascia”.
Sosteneva il Tribunale di sorveglianza che, con riferimento al differimento della pena, le patologie della detenuta non erano incompatibili con la detenzione in carcere e che le medesime potevano essere correttamente trattate all’interno dell’istituto penitenziario.

Nonostante la detenuta fosse ultrasessantenne, invalida e già beneficiaria dlla detenzione domiciliare nella fase cautelare, con fine pena ravvicinato, con il reato per cui era stata condannata commesso ben nove anni prima e con i “giorni” di liberazione anticipata già favorevolmente concessi, il Tribunale di sorveglianza rigettava anche l’istanza di detenzione domiciliare.
La magistratura di sorveglianza basava la propria valutazione solo sulla nota della Direzione distrettuale antimafia che attestava la pericolosità sociale della detenuta nonchè la sua effettiva partecipazione al gruppo camorristico di provenienza.

Sottolineava il Tribunale che la detenuta era stata condannata in passato per numerosi reati di usura ed estorsione avvalendosi della forza di intimidazione derivante dalla vicinanza al sodalizio criminoso.
Secondo la difesa però il Tribunale non motivava e dimostrava che la detenuta aveva ancora collegamenti con l’ambiente criminale e che avrebbe potuto commettere nuovi reati considerato che vi era stata una oggettiva modifica rispetto a quando i reati furono commessi.
Inoltre, per gli stessi reati, alla condannata era stata concessa la detenzione domiciliare per la sua limitata capacità a delinquere.

Il punto di vista della Cassazione.

Il Tribunale di sorveglianza di Roma riteneva la pericolosità sociale della condannata dalla gravità dei precedenti penali, dall’accertamento, contenuto nella sentenza di condanna, del ruolo preminente nel gruppo camorristico nonchè del sistematico ricorso al metodo mafioso per la consumazione dei reati di estorsione e di usura.
Accertava anche che i legami con la criminalità organizzata fossero attuali nonchè fosse assente ogni tipo di risarcimento in favore delle vittime o di resipiscenza.

Secondo la Cassazione però il Tribunale di sorveglianza non spiegava perchè la detenzione domiciliare era inidonea per il pericolo di recidiva dei reati senza l’acquisione di elementi che dimostrassero la ripresa dei legami con il sodalizio camorristico durante il lunghissimo periodo di quattro anni e mezzo in cui la condannata era agli arresti domiciliari.

Specifica poi la Suprema Corte che se il luogo dove scontare la detenzione domiciliare è lo stesso dove il detenuto ha “fatto” i domiciliari, non può per questo motivo giudicarsi questo luogo inidoneo.
Inoltre sempre secondo la Cassazione il Tribunale di sorveglianza non dimostrava che la detenuta, durante la detenzione domiciliare, durata ben quattro anni e sei mesi, avesse mantenuto i legami con il sodalizio camorristico.
La Corte di Cassazione in conclusione annullava l’ordinanza con riferimento al “rigetto” della detenzione domiciliare con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Roma.

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